Abbiamo lasciato la macchina alla chiesetta e imboccato il sentiero. Odore di mare e di campagna; luoghi abbandonati sulla destra: l’agricoltura non rende più e i contadini non ce la fanno (non sempre) a sostenere l’utopia di coltivare il tradizionale rimettendoci, cosicché nessun ricambio generazionale si è concretizzato.
La bellezza la puoi quindi solo ricordare o immaginare; i salti dei terrazzi con i muri lavici di pietra grezza non li vedi, i rovi li hanno coperti. Tutto è in attesa di una speculazione edilizia o di chissà quale trovata perché il “progresso è progresso” e “gli ambientalisti vogliono solo imbalsamare il territorio. Maledetti. Senza di loro sarebbe stato già un rifiorire di alberghi e case di villeggiatura, magari spacciate per case al servizio dell’agricoltura oppure del turismo rurale, magari realizzati con fondi europei. E l’economia sarebbe rinata, invece niente, preferiscono l’imbalsamazione del territorio. La Riserva!”
Chiara avanza davanti a me con la sua nuova fragilità. Forse è lì con me per non darmi un dispiacere, per fare contento questo strano padre che vorrebbe insegnarle a emozionarsi di natura. Insegnarle! Insegnarle a emozionarsi! Ma come faccio a non ricordarmi che la natura è un’acquisizione lenta come lo è stata per me; compendio o stratificazione di anni, esperienze, studi, orizzonti di senso!? Eppure sono convinto che i bambini vanno posti davanti a questo, davanti all’immagine della natura, davanti al bello. Poi pazienza, perseveranza, non stancarsi di spiegare, di raccontare le emozioni. Magari m’infastidirò del suo fastidio, ma va bene così, la sensibilizzazione passa dai fastidi, dalla noia. Poi dopo tanti fastidi s’innesca, non si sa come, il desiderio di fare, vedere, godere in autonomia delle cose che ci lasciavano prima indifferenti o annoiati. Avviene l’interiorizzazione dell’emozionalità davanti al linguaggio, ai segni del bello che cominciamo a comprendere: i meccanismi del riconoscimento che producono amore. Più si riconosce e più ci si riconosce nella bellezza della natura, o dell’arte, che diventano lo specchio della parte di noi che non si accontenta, che vuole agganciarsi alla dimensione universale, che vuole trascendere per non morire, o almeno per dare senso e darsi senso. Ci riflette la parte di noi che amiamo di più.
Il sentiero ha i muri alti, non ho mai capito il perché; sembrano fortificazioni della campagna circostante o fortificazioni per difendersi dalla campagna circostante. Camminiamo su terra battuta o spuntoni di roccia lavica levigata da remota usura; l’edera, l’edera sicula, antica, realizza un tetto sul sentiero trasformandolo per un tratto in un tunnel. La pietra lavica del muro a sinistra ha qualcosa che la rende armonizzata con la vecchiaia dei luoghi, con le sue vescicolazioni che realizzano una trama armonica e i colori antichi grigiorossoruggine. S’intravede l’orizzonte marino ma il mare sembra lontano, al punto da rendere ancora più sorprendente la sua visione dal ciglio della Timpa; e invece è ad appena 100 metri.
Giungiamo dal Compagno Matteo con animo dinoccolato. Benché provato diverse volte, anche questa volta è un vuoto allo stomaco. Un tuffo nei millenni. Com’è possibile esista un luogo così, senza tempo, a due passi dal terzo millennio? Il tempo si è fermato sopra la Timpa di Acireale ad “Acquegrandi”, dove un sentiero porta in quella strana spiaggia
Silenziosi, ad ammirare il mare di gennaio dall’alto, modellato dinamicamente dal maestrale con un mosaico di azzurri cangianti in una giornata di luce sfolgorante che solo l’inverno può regalare. Osservo la mia piccola discretamente, voglio non contaminare la sua reazione allo spazio aperto, alla meraviglia, a quella meraviglia che mi piace osservare nei tanti che ho condotto in quel luogo. Ma lei è la mia bimba fragile. ”Dai ispirati e fotografa, lì, con l’euforbia in primo piano, verso Santa Maria la Scala!. Chiara non si scompone dicendo solo un “bello” di ordinario entusiasmo, ovviamente non quello che avrei desiderato io.
Iniziamo così il percorso in discesa fermandoci quasi subito perché lì, nelle pietre del muretto a secco sulla sinistra ce n’è una speciale; contiene uno xenolite. La conservo nel cuore da anni, è legata a simboli emozionali e d’amore, come quel rudere di edificio diroccato alle spalle. Un pezzetto di roccia estranea staccata dal magma durante la risalita dalle viscere della terra.
IL sentiero è stato sistemato dalla Forestale alcuni anni fa, anche se la macchia mediterranea tende già a stringerlo, a richiuderlo. Non è agevole, mette a dura prova ginocchia e caviglie. Ma ne val la pena. Altri xenoliti e altri ricordi. La spiaggia con le cocole si apre a semiluna. E’ un museo delle micro forme delle “cocole”. Le cocole e i gli scogli tutti dimostrano di una spiaggia che è stata sotto il livello del mare, che per le strane vicende geologiche si ritrova adesso sopra il livello del mare. Lo testimoniano anche le concrezioni carbonatiche che suturano, riempiono, cementano; tipiche di ambiente costiero subacqueo. Chiara stavolta s’infervora. Le sculture alveolari delle cocole le piacciono, le fotografa, le fa diventare soggetti fotografici. “Garda quella roccia Chiara, sembra un animale preistorico, la pelle di un dinosauro”. Le canne della scarpata soprastante testimoniano di un’umidità persistente, conseguenza della presenza di terreni sabbiosi e limosi poco permeabili, che sormontano il terreno argilloso su cui poggia il vulcano, questo gigante dai piedi d’argilla. Un passato di pendici terrazzate per la coltivazione della vite lungo le scarpate delle Timpa. Adesso regno di canne o rovi.
Un pescatore è li sulla spiaggia paziente, non ci degna di uno sguardo, come l’uomo solitario col suo cane. “Se ce la fai ti porto a vedere i terreni più belli della Timpa, delle sabbie bianche (tufiti color bianco latte) con i fossili di organismi marini, terreni che sono testimonianza di fondale marino e di condizioni diverse, molto diverse dalla condizione attuale: laddove c’era il mare adesso e continente, roccia o terreno su cui camminiamo”. “Dai, allora seguimi, non è agevole perché dovremo camminare un po’ verso nord, su questi scogli, ma poi la nostra fatica verrà premiata”. Chiara si ferma dopo alcuni minuti di volenterosa faticosa avanzata sui mega blocchi di lava; anche io mi fermo dopo poco, non ha senso avanzare oltre senza lei e non voglio lasciarla fuori dal mio controllo visivo. Fotografo da lontano le tufiti fossilifere deposte 250 mila anni fa in una mare poco profondo e ritorno da Chiara. Ho foto di dettagli dello stesso soggetto fatte in altre escursioni, può bastare.
Ritorniamo sul sentiero che s’arrampica verso il Compagno Matteo dopo avere fotografato come una star un blocco di roccia lavica con le sculture alveolari talmente belle da farlo apparire una madrepora grigio perla. Entrambi abbiamo raggiunto un obiettivo; ci attende la dura salita ma sappiamo che abbiano raggiunto il nostro obiettivo. Siamo stati bene insieme in questo posto fuori dal tempo che per miracolo ha resistito all’avanzare pervasivo del brutto architettonico che ha corrotto spettacolari paesaggi costieri.
Forse la nostre battaglie ambientaliste non ci hanno fatto ottenere tutto quello che pensavamo, negli anni ’80 , fosse a portata di mano. Quando la sensibilità ecologica diffusa dava credito alle rivendicazioni e fastidio serio agli amministratori. Adesso c’è l’indolenza, la loro indolenza, e la gente è rinchiusa nel proprio privato, stanca e disillusa, ambientalisti compresi. Ma abbiamo contribuito a salvare (spero per sempre) un pezzo di territorio che consente ancora adesso e consentirà, spero, di osservare quello che era possibile osservare secoli o millenni fa.
Giuseppe Filetti