giovedì 19 gennaio 2012

I palazzi osceni

Guardo i palazzi osceni che stanno sorgendo davanti al mio sguardo che fino a pochi giorni fa poteva ambire all’orizzonte marino, all’infinito. Una delle immagini fantastiche più frequenti è la loro implosione notturna sostituiti da una collinetta-giardino. Non è una scheggia di pensiero, è un pensiero strutturato che ritorna ossessivamente. È un autoinganno della mente, la difesa neurobiologia da un dolore d’origine estetica: la scomparsa notturna dei palazzacci che hanno annullato lo spazio del mio immaginario, violato la mia anima.
Cerco di trovare una ragione, non ne vedo una, c’è in loro una ricerca scientifica del più volgare possibile, il volgare che ti riguarda direttamente e che non puoi fare a meno di vedere, è una condanna a vita se resti a vita in questo posto.
Non c’è un motivo che possa giustificare la loro esistenza, così come poteva accadere negli anni ’60 e ’70, quando il palazzo verticale era evocativo di sentimento verticale, di emancipazione dalla casa terranea cui si associava povertà, umidità, assenza di luce, una condizione sociale marginale. Quella verticalità brutta col senno del poi, non era brutta agli occhi di coloro che non avevano l’acqua in casa, il bagno era in una dependance fuori e l’orinale sotto il letto. Un unico orinale, per cui si doveva chiamare la mamma per fare pipì giacché quell’ orinale era da lei detenuto. E chi se ne fregava se sorgevano strade e parcheggi asfaltati nell’angusto spazio tra una casa e l’altra e i cortili condominiali erano d’asfalto senza un albero: meglio! Gli alberi sapevano di campagna, quindi di fatica, di terra, di braccianti, di lavoro socialmente marginale quando la vera aspirazione degli operai e dei piccoli borghesi era il posto in banca. Meglio l’asfalto con la sua carica di modernità ed emancipazione. Quella degli anni ‘60 e ‘70 era brutta ma era la prima casa o al più la casa dei figli; realizzava uno status symbol di emancipazione autentica di quegli anni.
Ma adesso, se metti insieme il volgare architettonico come non si era mai visto (il nulla dietro la forma, non c’è un residuo di pensiero progettuale degno di questo nome) e il venir meno dell’esigenza di emancipazione simbolica e pratica dalla povertà pre e post bellica, realizzi violenza allo stato puro. Se davanti ad un paesaggio cui per decenni ti eri abituato realizzando riferimenti e percorsi visivi emozionali e fonti di equilibrio interiore, ti realizzano enormi, informi casermoni/barriera senza uno straccio di dignità architettonica, adesso, nel 2011, hai realizzato l’offesa più infame che potessi realizzare ad una comunità nel suo insieme e nei singoli individui che ne piangeranno quotidianamente le conseguenze.

L’anima dei luoghi
I luoghi hanno l’anima. Sono anche spazi dello spirito, sono riposo e proiezioni della nostra anima e su di essi costruiamo architetture fantastiche. Sono il volare dei pensieri. I luoghi urbani sono equilibrio, stratificazione dignitosa di storia, non sono la composizione di elementi a cui puoi togliere o mettere a piacimento le cose senza provocare sradicamento psicoemozionale dagli stessi, rifiuto. Non puoi accostare alle case terranee esistenti elementi squadri, metaforicamente e fisicamente informi e senza dignità architettonica, molto, troppo più alti, perché comunque queste piccole case in muratura sono testimoni di un passato rurale e povero si, ma dignitoso, di quella dignità sconosciuta a chi concepisce tumori architettonici di questo tipo, frutto di una mente senza neanche lo strascico, il residuo, di un pensiero etico, proiettata al denaro per il denaro. E’ La qualità dell’ambiente che fa anche qualità della vita. Non è sufficiente ma è necessaria; ti condiziona gli umori, il senso dell’equilibrio, iI rifugio in cui ricaricare le batterie del corpo, la relazione con gli abitanti di una comunità con cui condividi spazi abitativi, dai più piccoli ai più grandi. “Le città del mondo sono sempre più brutte se hanno edifici che tolgono la vista e tarpano i pensieri” diceva Vittorini.
Come si può agire così quando si tratta di interventi edilizi che cambiano radicalmente un luogo?

La periferia nord paradigma della città
Il luogo di cui parlo è S. Cosmo e la periferia settentrionale di Acireale. Già negli anni ’80 il nuovo quartiere popolare aveva sconvolto socialmente e architettonicamente i luoghi con un numero inusitato di palazzi e vani (1500 circa) abitati dalle fascia più debole e socialmente marginale della nostra società, che ha ovviamente determinato la nascita del tipico quartiere ghetto in cui si realizzano le note economie di scala nei processi di emulazione dei peggiori comportamenti sociali dei singoli.

Provo a sintetizzare perché l’area di San Cosmo e tutta la periferia nord di Acireale è paradigma di una città e della sua amministrazione, che rispecchia l’intima natura culturale e psicologica dei suoi amministratori, ma, ovviamente, anche di una parte significativa dei suoi abitanti:
1. I palazzi di cui ho prima parlato sono orrendi edifici in costruzione che si interpongono tra il quartiere di edilizia a cooperative di via Sutera (quartiere dignitoso degli anni ’80) e S. Cosmo, in gran parte sviluppati lungo la Via Villalba. Affido alle mie precedenti considerazioni emotive la comprensione autentica di quello che rappresentano questi edifici per chiunque sia dotato di minima sensibilità.
2. Lo spazio tra i nuovi uffici tecnici comunali in quello che nacque come un pensionato, tra il quartiere popolare e i palazzi volgari senza anima in argomento, è una piazzale che è stato ricoperto da grana d’asfalto (ripeto grana d’asfalto ! Dunque “la qualità adeguata al quartiere popolare…” ) su cui sono disordinatamente piantati tristissimi alberi (12 in totale in uno spazio di mezzo ettaro). Sul lato meridionale del piazzale, di fronte all’ingresso dei nuovi uffici tecnici comunali, è stato impiantato uno dei tantissimi carrozzoni zingareschi bar/panineria nati a decine in città negli ultimi 10 anni, con il necessario corredo di plasticoni bianchi e tendaggi in plastica, che completa degnamente lo squallore oltre che l’appropriazione indebita dei luoghi.
3. Fino ad alcuni anni fa, a bordare la strada per duecento metri circa prima della chiesetta di San Cosmo era una filare secolare di cipressi. Insieme alla chiesetta, era il simbolo identificativo del nucleo abitato di San Cosmo le cui origini si perdono nell’antichità, come testimoniano le numerose sepolture funebri scoperte tra San Cosmo e Santa Maria degli Ammalati. Nel mese di luglio 2006 ne furono tagliati 12 di questi cipressi senza un motivo plausibile, che non esiste mai, ma a maggior ragione in quel caso, poiché fu la balorda esigenza di approvvigionamento di legna da ardere in un terreno apparentemente abbandonato. Forse fu addirittura un furto perpetrato approfittando dello stato di abbandono in cui versava e versa il terreno. Lo scrivente lo denunciò per iscritto al Comune e ai mezzi di comunicazione locale ma non successe niente. Niente!! Il Sindaco e l’Ufficio Tecnico e urbanistico furono messi al corrente del taglio degli alberi durante i lavori in corso che non furono bloccati. “Tutto questo rumore per 12 cipressi, in area privata!?” avranno pensato, che la dice lunga sulla loro sensibilità. Un abitante della strada mi disse “megghiu, faceunu umbra a mo casa!”
4. L’istituto comprensivo Vigo Fuccio di via Monetario Floristella, che comprende le classi dalla materna alla 3° media, non possiede un mq di verde; neanche un albero! Un albero! Hanno realizzato una scuola senza un albero. La speranza era un fazzoletto di terra adiacente e a sud della scuola. Uno spazio residuo che avrebbe dovuto costituire il piccolo parco a verde e la zona ludica, ginnica e ricreativa del plesso. Ebbene, questo luogo è stato edificato con un mostruoso palazzo che impedisce la spettacolare visione dell’Etna quando si proviene dalla via Cervo, prima d’imboccare la via Monetario Floristella e impedirà per sempre una spazio sfogo per la scuola. Il tutto per la miserabile bramosia di ricchezza di un singolo che manda a puttane l’interesse collettivo senza un’autentica azione oppositiva da parte dell’Amministrazione Comunale e dei cittadini.


Credo che il paradigma San Cosmo-Via Sutera-Via Villalba qui esemplificato (non vado oltre ma l’elenco potrebbe, ovviamente, essere molto lungo), proprio perché paradigma, sia sufficiente a capire come viene amministrata questa città. Come viene percepito e considerato il paesaggio urbano e agricolo in tutte le sue manifestazioni.

L’estetica e il senso estetico bussola del pensare e dell’agire
Io credo che sia innanzitutto un problema estetico: la volgarità sotto tutte le forme è una problema estetico, ferisce il senso estetico di chi ce l’ha. Se non si possiede senso estetico manca un fondamentale, irrinunciabile, strumento di analisi della spazio in cui si vive e quindi d’azione politica amministrativa, per chi riveste cariche istituzionali. Semplicemente non essendo dotati di mezzi d’analisi, non ci si accorge della volgarità di cui si può essere autori diretti o indiretti.
Mi pare opportuno chiarire che il contrario di bello per me non è brutto ma è “volgare”; è una semplificazione, contestabile, ma che ha la sua ragione d’essere da molti punti di vista. Un uomo non sceglie di essere esteticamente brutto o bello. Ma si è volgari perché lo si sceglie direttamente o indirettamente. Attivamente, ma anche per omissioni. Volgare non è solo un problema comportamentale; può essere volgare il pensiero e l’oggettivazione dei suoi effetti, come lo sono anche gli edifici osceni che umiliano un contesto sociale. È l’assenza di alberi, di un parco, che avrebbero potuto addolcire esteticamente e funzionalmente un quartiere popolare riducendone l’aridità estetica ma anche un po’ di rabbia ed emarginazione sociale (“La bellezza salverà il mondo” – recitava Dostoevskij). Volgare è consentire, o non impedire con tutti i mezzi, a un privato di realizzare una speculazione edilizia laddove dovevano nascere spazi verdi e ludici necessari, vitali, ai bambini di una scuola già concepita senza verde. Volgare è annullare di colpo una spettacolare visione del Vulcano dal cuore della città o dai suoi margini, quella visione che ti apre il cuore, che ti mette di buon umore, che ti una scossa di benessere ogni volta che la realizzi ma anche se non ne prendi coscienza. Volgare è tagliare, o non impedirlo, un filare di cipressi che oltre che patrimonio verde avevano con la loro storicizzazione identificato un luogo, caratterizzandolo profondamente (“accarezzavo il filare di cipressi con lo sguardo mentre passavo”) e nel migliore dei modi. Volgare è consentire ai gestori concessionari dei due chioschetti liberty della villa comunale di vendere osceni oggetti e pupazzi di plastica cinese ed esporli a terra fino a notevole distanza dal chiosco in modo da accogliere “degnamente” il visitatore in uno dei luoghi più belli (“la balconata sullo Jonio”) e rappresentargli lo “spessore culturale” della città. Volgare è alzarsi la mattina per andare ad amministrare una città e non fare niente perché insieme alla gestione delle emergenze non si semini per darle futuro, per preservare i luoghi e le possibilità di benessere e trasmetterli alle future generazioni con decoro e dignità. Volgare è non rendersi conto dei propri limiti, eppure cimentarsi senza i necessari mezzi culturali, di sensibilità, di conoscenza e di amore in ruoli che hanno ricadute vitali per il benessere della collettività. O per la sua disperazione e alienazione.

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se c’e n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui; cercare e saper riconoscere , chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio” (Marco Polo e I. Calvino - citati in Periferie umane nelle città frantumate - Raffaele Rauty – Torino 6° assemblea tematica della Caritas).

Giuseppe Filetti